Visioni esistenzialiste a confronto: il concetto di “angoscia” nella visione di Kierkegaard, Heidegger e Sartre.
La parola «angoscia» ha preso nella filosofia esistenzialistica il significato di «inquietudine metafisica» avvertita dall'uomo attraverso i suoi tormenti individuali. Il termine è stato introdotto ed ampiamente analizzato in senso esistenziale da Kierkegaard, in particolare nell’opera Il concetto dell’angoscia (1844), per poi venire ripreso su un piano prettamente filosofico, nella filosofia contemporanea, da autori quali Heidegger e Sartre.
Per Kierkegaard la dimensione dell’angoscia è costitutiva dell’esistenza stessa dell’uomo, essa si fonda in ciò che l’uomo stesso è: una sintesi sempre dinamica di anima e corpo, finito e infinito, sintesi che viene designata con il termine spirito. L'angoscia è infatti propria di uno spirito incarnato, quale è l'uomo, di un essere fornito di una libertà che non è né necessità, né astratto libero arbitrio, ma libertà condizionata dalla situazione, ossia dalla possibilità di ciò che può accadere, di poter agire in un mondo in cui non può sapere cosa accadrà. Essa non è presente nella bestia che, priva di spirito, è guidata dalla necessità dell'istinto, né nell'angelo che, puro spirito, non è condizionato dalle situazioni concrete. «Se l’uomo fosse animale o angelo, non potrebbe angosciarsi. Poiché è una sintesi, egli può angosciarsi.»
Tali considerazioni si accostano alle analisi pascaliane della condizio¬ne di «miseria dell'uomo», ma i filosofi esistenzialisti ne traggono conclusioni ben di¬verse, in cui l'angoscia non appare più né condannabile né perdonabile, ma simbolica e talvolta fine a se stessa, e ciò spiega l'aspet¬to pessimistico di molte di queste filosofie e la loro reputazione di dottrine puramente negatrici e nichiliste.
La possibilità è la categoria fondamentale dell'esistenza e la condizione di insicurezza, inquietudine e travaglio strettamente connessa a questa categoria è l'angoscia come "vertigine": l'uomo sa di poter scegliere, di avere di fronte a sé la possibilità assoluta, ma proprio l'indeterminatezza di questa situazione lo strazia. Egli acquista la coscienza che tutto è possibile, ma proprio quando tutto è possibile è come se nulla fosse possibile, e la possibilità pertanto non si riveste di positività, ma è la possibilità dello scacco, la possibilità del nulla.
Attraverso l’analisi del peccato originale Kierkegaard mostra come l’angoscia sia insieme presupposto e conseguenza del peccato, quel passaggio da innocenza a colpevolezza che rivive ogni volta nella vita di ogni uomo. L’innocenza è ignoranza, assenza di consapevolezza della differenza tra bene e male, stato di pace e quiete, in cui nulla disturba, ma proprio il nulla genera angoscia. Infatti l’angoscia non si ha di fronte a qualcosa di determinato al modo della paura, bensì di fronte al nulla, all’infinita possibilità di potere, poiché essa è “la vertigine della libertà”. Adamo non comprende il divieto di Dio, ma comprende la possibilità di potere, la libertà di potere, quella possibilità che è ben più terribile di ogni realtà poiché in essa tutto è possibile, anche la perdizione e l’annientamento.
Nell'angoscia l'uomo sente insieme il nulla donde proviene e la tensione verso l'av¬venire che lo attende, gli appare l'ambiguità fondamentale della sua esistenza, sospesa tra l'essere e il nulla, e con essa l'irrazionalità della sua situazione metafisica e l'assurdità della vita.
Nella vertigine sull’orlo dell’abisso, l’uomo non sa reggere il peso dell’angoscia e per romperla compie il salto nell’abisso stesso: pecca. E con il peccato prende coscienza di sé, così l’angoscia si va a configurare come possibilità del male e del bene che accompagna l’uomo in tutte le situazioni, ineluttabile contro ogni tentativo di occultarla essa è insieme condizione di apertura alla libertà, via che conduce alla fede se vissuta nel modo giusto. L’esperienza della possibilità del nulla si risolve così soltanto compiendo un altro tipo di salto, un salto qualitativo, aggrappandosi all'unica possibilità infinitamente positiva: Dio. Il credente non ha più l'angoscia del possibile, poiché il possibile è nelle mani di Dio.
Heidegger (in foto) discorre a lungo intorno al fenomeno dell’angoscia, ritenendolo il più adatto a svelare l’essenza dell’uomo. L’esserci (uomo) è in maniera strutturale emotivamente aperto al mondo e ciò si rivela nei diversi stati d’animo, tra i quali assume particolare rilevanza proprio l’angoscia che, a differenza della paura, non si ha di fronte a qualcosa di determinato, bensì alla totale indeterminatezza, al nulla come totale assenza di significato del mondo stesso. L’uomo si ritrova ad esistere senza sapere donde viene e dove va, percepisce la sua esistenza come un puro essere-gettato nel mondo. Percezione del nulla e percezione della libertà si implicano vicendevolmente nell’angoscia, portando l’uomo alla fuga da sé, ad abdicare irresistibilmente alla propria responsabilità e libertà, a rifugiarsi nel mondo tranquillizzante dell’esistenza in autentica. Ma per Heidegger il modo giusto di vivere, l’esistenza autentica va a coincidere con il vivere-per-la-morte: la vita può svolgersi entro un orizzonte autentico se e solo se le scelte dell’uomo sono rapportate alla sua stessa finitezza. Se le scelte fossero svolte entro un ambito di vita eterna, perderebbero di significato perché non comporterebbero alcuna assunzione di responsabilità, in quanto ogni evento e ogni scelta potrebbe essere ripetuta all'infinito, ogni strada potrebbe essere battuta, superando quel principio di esclusione (l'aut-aut kierkegaardiano) per cui una decisione comporta alcune conseguenze e non altre: una vera condanna all'eternità, nella quale ogni scelta risulterebbe indifferente e la vita stessa perderebbe di significato, cedendo all'apatia e all'indifferenza. Il vivere-per-la-morte è concetto positivo: solo la consapevolezza della finitezza umana è in grado di produrre quel significato e quell'attenzione per le cose del mondo che non si potrebbero avere se, perduto nell'eternità, l’uomo avesse la consapevolezza di poterne godere in eterno.
Da qui l’esortazione ad avere il coraggio dell’angoscia, poiché derivando essa proprio dalla suddetta consapevolezza di finitezza, oltre ad essere uno stato emotivo indissolubilmente legato all'esistenza autentica, è anche un sentimento positivo, dal quale non sfuggire, necessario a dare significato autentico alla vita, mentre chi vive nell'esistenza inautentica tende a dimenticare la morte e ad allontanare l'angoscia, in un modo che ricorda da vicino le considerazioni pascaliane sul "divertissement".
Anche Sartre parla di comportamenti di fuga e di scusa, la “malafede”, una sorta di menzogna raccontata a se stessi e su se stessi, un tentativo di rifugiarsi nel modo di essere tranquillizzante dell’in-sé, accettando regole e gerarchie sociali. Ma la fuga risulta impossibile, perché nel momento stesso in cui l’uomo fugge da sé e dalla propria angoscia si rende perfettamente consapevole di essa, la sperimenta appieno e cercando di fuggire alla propria libertà ne fa completo uso. Ma per Sartre questa situazione non può avere esito positivo: l’ineluttabilità di libertà e angoscia è l’ineluttabilità di una vita destinata allo scacco. L’uomo è condannato a vivere questo continuo superamento di ciò che è in direzione del proprio non-essere-ancora senza mai giungere a compimento, senza mai ottenere un appagamento, continuando a comportarsi “come un asino che tira un carretto e che tenta di prendere una carota fissata alla punta di un bastone anch’esso legato alle stanghe del carro. Ogni sforzo dell’asino per afferrare la carota ha per effetto di far avanzare tutto il carretto e anche la carota che rimane sempre alla stessa distanza dall’asino.”
Francesco Macaluso
Fonte: appunti universitari (2011)
La parola «angoscia» ha preso nella filosofia esistenzialistica il significato di «inquietudine metafisica» avvertita dall'uomo attraverso i suoi tormenti individuali. Il termine è stato introdotto ed ampiamente analizzato in senso esistenziale da Kierkegaard, in particolare nell’opera Il concetto dell’angoscia (1844), per poi venire ripreso su un piano prettamente filosofico, nella filosofia contemporanea, da autori quali Heidegger e Sartre.
Per Kierkegaard la dimensione dell’angoscia è costitutiva dell’esistenza stessa dell’uomo, essa si fonda in ciò che l’uomo stesso è: una sintesi sempre dinamica di anima e corpo, finito e infinito, sintesi che viene designata con il termine spirito. L'angoscia è infatti propria di uno spirito incarnato, quale è l'uomo, di un essere fornito di una libertà che non è né necessità, né astratto libero arbitrio, ma libertà condizionata dalla situazione, ossia dalla possibilità di ciò che può accadere, di poter agire in un mondo in cui non può sapere cosa accadrà. Essa non è presente nella bestia che, priva di spirito, è guidata dalla necessità dell'istinto, né nell'angelo che, puro spirito, non è condizionato dalle situazioni concrete. «Se l’uomo fosse animale o angelo, non potrebbe angosciarsi. Poiché è una sintesi, egli può angosciarsi.»
Tali considerazioni si accostano alle analisi pascaliane della condizio¬ne di «miseria dell'uomo», ma i filosofi esistenzialisti ne traggono conclusioni ben di¬verse, in cui l'angoscia non appare più né condannabile né perdonabile, ma simbolica e talvolta fine a se stessa, e ciò spiega l'aspet¬to pessimistico di molte di queste filosofie e la loro reputazione di dottrine puramente negatrici e nichiliste.
La possibilità è la categoria fondamentale dell'esistenza e la condizione di insicurezza, inquietudine e travaglio strettamente connessa a questa categoria è l'angoscia come "vertigine": l'uomo sa di poter scegliere, di avere di fronte a sé la possibilità assoluta, ma proprio l'indeterminatezza di questa situazione lo strazia. Egli acquista la coscienza che tutto è possibile, ma proprio quando tutto è possibile è come se nulla fosse possibile, e la possibilità pertanto non si riveste di positività, ma è la possibilità dello scacco, la possibilità del nulla.
Attraverso l’analisi del peccato originale Kierkegaard mostra come l’angoscia sia insieme presupposto e conseguenza del peccato, quel passaggio da innocenza a colpevolezza che rivive ogni volta nella vita di ogni uomo. L’innocenza è ignoranza, assenza di consapevolezza della differenza tra bene e male, stato di pace e quiete, in cui nulla disturba, ma proprio il nulla genera angoscia. Infatti l’angoscia non si ha di fronte a qualcosa di determinato al modo della paura, bensì di fronte al nulla, all’infinita possibilità di potere, poiché essa è “la vertigine della libertà”. Adamo non comprende il divieto di Dio, ma comprende la possibilità di potere, la libertà di potere, quella possibilità che è ben più terribile di ogni realtà poiché in essa tutto è possibile, anche la perdizione e l’annientamento.
Nell'angoscia l'uomo sente insieme il nulla donde proviene e la tensione verso l'av¬venire che lo attende, gli appare l'ambiguità fondamentale della sua esistenza, sospesa tra l'essere e il nulla, e con essa l'irrazionalità della sua situazione metafisica e l'assurdità della vita.
Nella vertigine sull’orlo dell’abisso, l’uomo non sa reggere il peso dell’angoscia e per romperla compie il salto nell’abisso stesso: pecca. E con il peccato prende coscienza di sé, così l’angoscia si va a configurare come possibilità del male e del bene che accompagna l’uomo in tutte le situazioni, ineluttabile contro ogni tentativo di occultarla essa è insieme condizione di apertura alla libertà, via che conduce alla fede se vissuta nel modo giusto. L’esperienza della possibilità del nulla si risolve così soltanto compiendo un altro tipo di salto, un salto qualitativo, aggrappandosi all'unica possibilità infinitamente positiva: Dio. Il credente non ha più l'angoscia del possibile, poiché il possibile è nelle mani di Dio.
Heidegger (in foto) discorre a lungo intorno al fenomeno dell’angoscia, ritenendolo il più adatto a svelare l’essenza dell’uomo. L’esserci (uomo) è in maniera strutturale emotivamente aperto al mondo e ciò si rivela nei diversi stati d’animo, tra i quali assume particolare rilevanza proprio l’angoscia che, a differenza della paura, non si ha di fronte a qualcosa di determinato, bensì alla totale indeterminatezza, al nulla come totale assenza di significato del mondo stesso. L’uomo si ritrova ad esistere senza sapere donde viene e dove va, percepisce la sua esistenza come un puro essere-gettato nel mondo. Percezione del nulla e percezione della libertà si implicano vicendevolmente nell’angoscia, portando l’uomo alla fuga da sé, ad abdicare irresistibilmente alla propria responsabilità e libertà, a rifugiarsi nel mondo tranquillizzante dell’esistenza in autentica. Ma per Heidegger il modo giusto di vivere, l’esistenza autentica va a coincidere con il vivere-per-la-morte: la vita può svolgersi entro un orizzonte autentico se e solo se le scelte dell’uomo sono rapportate alla sua stessa finitezza. Se le scelte fossero svolte entro un ambito di vita eterna, perderebbero di significato perché non comporterebbero alcuna assunzione di responsabilità, in quanto ogni evento e ogni scelta potrebbe essere ripetuta all'infinito, ogni strada potrebbe essere battuta, superando quel principio di esclusione (l'aut-aut kierkegaardiano) per cui una decisione comporta alcune conseguenze e non altre: una vera condanna all'eternità, nella quale ogni scelta risulterebbe indifferente e la vita stessa perderebbe di significato, cedendo all'apatia e all'indifferenza. Il vivere-per-la-morte è concetto positivo: solo la consapevolezza della finitezza umana è in grado di produrre quel significato e quell'attenzione per le cose del mondo che non si potrebbero avere se, perduto nell'eternità, l’uomo avesse la consapevolezza di poterne godere in eterno.
Da qui l’esortazione ad avere il coraggio dell’angoscia, poiché derivando essa proprio dalla suddetta consapevolezza di finitezza, oltre ad essere uno stato emotivo indissolubilmente legato all'esistenza autentica, è anche un sentimento positivo, dal quale non sfuggire, necessario a dare significato autentico alla vita, mentre chi vive nell'esistenza inautentica tende a dimenticare la morte e ad allontanare l'angoscia, in un modo che ricorda da vicino le considerazioni pascaliane sul "divertissement".
Anche Sartre parla di comportamenti di fuga e di scusa, la “malafede”, una sorta di menzogna raccontata a se stessi e su se stessi, un tentativo di rifugiarsi nel modo di essere tranquillizzante dell’in-sé, accettando regole e gerarchie sociali. Ma la fuga risulta impossibile, perché nel momento stesso in cui l’uomo fugge da sé e dalla propria angoscia si rende perfettamente consapevole di essa, la sperimenta appieno e cercando di fuggire alla propria libertà ne fa completo uso. Ma per Sartre questa situazione non può avere esito positivo: l’ineluttabilità di libertà e angoscia è l’ineluttabilità di una vita destinata allo scacco. L’uomo è condannato a vivere questo continuo superamento di ciò che è in direzione del proprio non-essere-ancora senza mai giungere a compimento, senza mai ottenere un appagamento, continuando a comportarsi “come un asino che tira un carretto e che tenta di prendere una carota fissata alla punta di un bastone anch’esso legato alle stanghe del carro. Ogni sforzo dell’asino per afferrare la carota ha per effetto di far avanzare tutto il carretto e anche la carota che rimane sempre alla stessa distanza dall’asino.”
Francesco Macaluso
Fonte: appunti universitari (2011)